REFERENDUM

18.08.2011

di Ciro Amato

Due referendum affrontano da angolature diverse lo stesso problema: il primo riguarda infatti tutti i servizi pubblici locali a rilievo economico (e non solo all'acqua), il secondo invece tocca proprio le tariffe dell'acqua. Il primo chiede l'abrogazione di tutto l'articolo 23-bis della legge 133/08, sulla gestione dei servizi pubblici locali di rilievo economico da parte delle amministrazioni pubbliche. L'articolo non riguarda farmacie comunali, gas, energia elettrica e trasporto ferroviario regionale, che sono disciplinati da norme speciali.

Oggi un ente locale eroga molti servizi pubblici: l'illuminazione votiva nei cimiteri, il trasporto scolastico, il servizio idrico, l'assistenza sociale, le case di riposo. Queste attività sono considerate servizi pubblici, cioè sono gestiti per erogare una prestazione ai cittadini. La concreta prestazione del servizio pubblico secondo l'articolo 23-bis deve (e non può) avvenire in uno dei seguenti modi:

1. privato imprenditore o una società;

2. una società di capitali mista pubblico-privata;

3. L'ente locale lo trattiene per sé e lo può gestire mediante una società di capitali, interamente pubblica, di cui la proprietà è dell'ente stesso o di più enti.

Questo assetto deriva dalle direttive europee, che sul punto, però, sono state recepite dal nostro Paese in maniera più restrittiva, come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale. L'Ue, nel «Libro Verde sui servizi pubblici» del 2004, non chiede infatti di affidare i servizi necessariamente ai privati, ma lascia liberi gli Stati di scegliere una strada che tuteli la concorrenza e il mercato.

L'articolo 23-bis della L. 133/08 è stato poi modificato, nel 2009, dal decreto «Ronchi» (L. 166/09), che ha definitivamente stabilito che i servizi pubblici locali a rilevanza economica, nessun escluso (quindi non solo l'acqua), debbano essere affidati ai privati e, solo eccezionalmente e dopo una lunga istruttoria, possano essere gestiti in proprio, mediante società pubblica, su parere, obbligatorio, dell'Autorità per la concorrenza e il mercato. In sostanza il decreto Ronchi pretende che la decisione degli enti locali debba (e non possa) essere, per legge, orientata prima al privato e, poi, al pubblico. Infatti obbliga gli enti a scegliere, ovviamente con gara pubblica, un soggetto privato, cioè una società di capitali (srl o spa) per erogare il servizio per i cittadini; oppure l'ente potrà costituire, comunque, una società mista pubblica privata, ma in cui il privato abbia almeno il 40% del capitale (quote o azioni) della società, appositamente costituita. Così dal 2009 il nostro Paese ha scelto per tutti i servizi pubblici locali di rilievo economico la strada della «necessaria» privatizzazione, o almeno si può dire, ha reso molto difficile la gestione in proprio dei servizi.

Se al referendum prevalessero i «sì» l'articolo 23-bis sarebbe abrogato e si applicherebbe l'articolo 113 del testo unico degli enti locali, il decreto legislativo n. 267/00, che è più permissivo rispetto alla possibilità di costituire una società interamente pubblica per gestire qualsivoglia servizio pubblico. Sul punto tra i costituzionalisti si discute, però.

Il secondo quesito, invece, è specificamente dettato per abrogare una norma del testo unico dell'ambiente, il decreto legislativo 152/06, che riguarda la tariffa del servizio idrico integrato (cioè la gestione dell'acqua). Si chiede di abrogare l'articolo 154, comma 1, solo ove parla del compenso per il capitale investito. Tale norma riguarda la tariffa dell'acqua che, nel testo della legge, è specificamente chiamata corrispettivo. L'intento del comitato promotore qui è molto chiaro. Se si abroga una norma che prevede che la tariffa dell'acqua sia «un corrispettivo», che serve anche a ricompensare il privato gestore per l'uso del proprio capitale, che giuridicamente equivale ad un prezzo, allora il bene acqua non avrà esattamente un valore di mercato, liberamente oscillante secondo le esigenze del privato gestore (vedi primo quesito), ma il legislatore sarà costretto a vederlo come una tassa, cioè disciplinata con legge e a porlo a carico della fiscalità generale, magari. In sostanza avremo un prezzo pubblico, in cui "la ricompensa al privato per il capitale che investe" non c'è più.

Se prevalessero i «sì» al secondo quesito la norma sarebbe cancellata dalla legge e resterebbe un vuoto legislativo che il Parlamento dovrebbe colmare urgentemente e coerentemente con il risultato del referendum, approvando nuove norme, se non proprio conformi, almeno non palesemente in contrasto con la volontà popolare.

Il Governo con il decreto legge sullo sviluppo, il n. 70/11, all'art. 10 ha previsto la istituzione dell'Agenzia di vigilanza delle risorse idriche che assorbe le competenze di cui i referendum discutono. Esso, è infatti, autorità di progettazione e controllo del mercato dell'acqua. E questo, secondo alcuni toglierebbe molto significato ai due quesiti referendari, anche se non li evita.